La smania
La smania di vivere l'aveva travolta.
La smania di prendere, guardare, afferrare, cambiare.
Avrebbe voluto ancora più bellezza, sempre più bellezza.
Una vita da miserabili, non la voleva più.
La vita da miserabile l'avviliva, non era correlata alla sola mancanza di denaro,intorno a lei da troppo tempo si accumulava un'apatia purulenta, si respirava un'aria di morte, di assenza di energia, nessuna iniziativa, poca voglia.
Lei di voglia invece ne aveva moltissima e spesso la subiva, lasciava che le attraversasse il corpo e la testa, permetteva che la voglia la tramortisse, lasciandola stanca ed insoddisfatta.
Alcune mattine, prima dell'alba, la voglia la destava bruscamente.
Era un bel risveglio però, forte ma ricco, aprire gli occhi e goderne era così piacevole.
Si guardava i piedi fuori dalle coperte, li trovava pallidi ed eleganti, affusolati e femminili.
Poi c'erano le cavigle subito sopra a rovinare un pò il disegno della gamba, una gamba forte, massiccia, tonda.
Ogni giorno avrebbe voluto andare, partire, scoprire, leggere e guardare.
Era affamata,voleva creare con le mani, cucinare, camminare a lungo, prendersi tutto il tempo che invece non aveva mai.
Voleva arrivare a piedi fino al giornalaio, comprare il suo settimanale preferito, sedersi davanti ad una tazza calda di te', e metterci un'infinità a togliere il cellophane, ad annusarlo, a sfogliarlo, poi a leggerlo tutto, fino in fondo per una volta almeno.
Non voleva più orari ed impegni, ma solo tante cose da vivere, anche faticose, ma non obbligatorie, voleva cose belle per sè e per i suoi bambini.
Basta con quella corsa folle di ogni giorno, detestava l'idea di dover timbrare il proprio tempo, di lavorare con i piccoli pazienti con una durata esatta ed impersonale, qualcuno aveva bisogno di tempi più corti e malleabili, altri ancora necessitavano di un tempo più lungo, ma non importava a nessuno, ci si atteneva.
Attenersi l'annoiava, le toglieva la capacità di decidere, di distinguere, attenersi l'appiattiva.
A lei piaceva cogliere le differenze e regolarsi di conseguenza.
Voleva accoglienza e vicinanza, non vedeva quasi più negli occhi dei maestri e degli allenatori dei suoi figli, la passione, il passaggio, la testimonianza, vedeva solo la fabbrica, la folle fabbrica di bambini tutti scolarizzati, tutti a dorso, tutti a tuffarsi uno dopo l'altro, infondo,le pareva che nessuno li vedesse davvero.
Ci voleva tempo per guardare ed accorgersi, ci voleva pazienza e desiderio.
Lei voleva quella possibilità.
Ci si mandavano tantissimi messaggi in un giorno, un pò con chiunque e non ci si abbracciava quasi mai, non si andava più insieme da qualche parte, verso qualcosa.
La fame di momenti preziosi non si placava in lei, ne voleva di più, di meglio, di più intensi, di più veri.
Detestava il falso, il tanto per fare, il come si conviene.
Voleva brutalmente amare ed essere amata dalle sue amiche, dal suo uomo, dai propri bambini.
Avrebbe falciato convenzioni, luoghi comuni, banalità per balzare in piedi ed afferrare per sè, l'essenza dell'altro che le stava vicino.
"Guardami in faccia" le veniva da dire alle persone che aveva intorno, io sono qui, tu dove sei?
Molte le sembravano bugie, meccanismi di difesa, scarichi di coscienza, meschinerie.
Pensava che per il sublime avrebbe rischiato qualsiasi cosa, allontanando chi non voleva rischiare come lei.
La pochezza la sfiniva, la superficialità la rendeva aggressiva, era sempre più una belva intollerante, e la spinta a vivere davvero, la catapultava nel mondo.
Non iniziava davvero a fare l'amore perchè temeva il momento in cui sarebbe finito, allora languiva godendosi l'inizio, l'attesa, l'incontro.
L'affetto vero la scaldava fino in fondo alle ossa, le imitazioni o le brutte copie la raggelavano.
Diventava una signora con la foga di una bambina.
Iniziava a mettere i tacchi e voleva fare capriole.
Curava gli altri come solo un'adulta sa fare e contemporaneamente si sarebbe rannicchiata per giorni e notti dentro l'abbraccio caldo dell'uomo che sapeva capire la sua lingua, che parlava le sue stesse parole, che in fin dei conti la voleva com'era.
Stava invecchiando ed aveva sempre più voglia di vivere.
Commenti
Una tigre bianca in gabbia. Energia e melancolia. Bianca perché rara. La gabbia si può superare, basta pensare che lo spazio occupato dalle sbarre è un decimo dello spazio libero tra le sbarre (Osho vai a nasconderti). Puo' permetterti di guardare, di farti vedere. Esci o rinchiuditi con qualcuno che ti merita.
Scrivi un messaggio in bottiglia, magari utilizzando quella stupenda macchina da scrivere in foto, che scommetto ha un età in cui tutti la considerano matura. Suona quella campanella sul tavolino, room service per te e richiamo e sveglia per qualcuno (attenta però all'invasione di chierichetti).
Bella. La consapevolezza di esserlo da autostima. Capita perfino a me, ogni tanto, di avere qualche richiamo alla mia vanità.
Subito dopo averti scritto che la tua nuova foto del profilo è troppo sexy per il mio programma di filtro web (Vaticanus Torquemada aggiornamento 1394 A.D.)e che quindi avrei potuto vedere i tuoi occhi solo pixelati ed il tuo viso sostituito da qualcosa di meno conturbante tipo una sfilata di Victoria's secret in guepiere, ebbene...
entra nel mio studio lei.
Alta, magra e formosa allo stesso tempo come solo fotoshop può fare.
In effetti di quanto sua mamma aveva fatto rimane solo qualche apprezzabile vestigia.
Bella da fermare il traffico se se sei in macchina a trenta metri da lei che sul marciapiede cammina (no ferma roteando borsetta, no, cosa hai capito), vista di persona in effetti la sapiente e ripetuta opera di un chirurgo compiacente ed ora sicuramente ricco si nota fin troppo, un po' ovunque: zigomi, labbra, occhi, seno, glutei, eccetera. Soprattutto eccetera.
Conosco la sua storia. Una vita avventurosa, che l'ha portata ad aprire un albergo dall'altra parte del mappamondo. Con il suo fidanzato ufficiale (rivelatosi poi assai poco gentiluomo), che l'ha scaricata per una più giovane e più soda (originale, nevvero?).
Riporta con sé in Italia un bambino.
Per un certo periodo l'assisto gratuitamente, il bambino è residente in Patagonia o giù di lì. Conservo alcuni regali che mi ha fatto in quel periodo, tutti esotici. Una piramide con dentro la sabbia del deserto, la classica fila di elefantini in ebano a scalare, una testa di esploratore ridotta e mummificata ottimo fermacarte. Le solite cose.
Vorrei il certificato per fargli fare nuoto, mi chiede. Rende atletici.
Averlo saputo prima, le rispondo.
In che senso dottore?
Nel senso che non ho fatto nuoto e quindi come nota non sono atletico.
Lei dottore è in cerca di complimenti.
Mi accorgo che sono scivolato su un terreno pericoloso.
Ma no, signora, i complimenti me ne fa già tanti mia mamma...
Non scherzi dottore. Non è che ha un fratello per caso?
No mi spiace, mento per gelosia anticipatoria.
Peccato. Se lei fosse non impegnato...
(il bambino ha otto anni e ha le orecchie, una per lato).
Sorrido imbarazzato.
Dottore ma lei quanti anni ha? (pronta a calcolare a mente quanti anni o mesi di sessualità attiva mi restano).
Glie lo dico.
Ma dai? Li porta benissimo.
In effetti, dico, se non fosse per questa barba che è più grigia dei capelli...potrei barare sull'età.
Ma cosa dice? Le sta benissimo. Lei è un gran gnocco. Si può dire gnocco?
Se lo dico io a lei, l'equivalente femminile, è molestia. Se lo dice lei a me lo prendo come un complimento.
(il bambino continua ad avere le orecchie)
Non mi fraintenda dottore, io vado in chiesa tutte le domeniche, anzi canto anche nel coro.
(immagini di chierichetti turbati per sempre e di beghine schiumanti).
e su questa immagine (mettiamoci anche un parroco con la tunica che davanti non gli cade proprio a piombo) ti lascio ad immaginare il seguito. Poi te lo racconto. Il tempo di aggiungere false pruderie.
prima di proseguire con la storia devi sapere che sotto la mia scrivania ho tre pulsanti di emergenza anti molestie.
Se schiaccio il primo irrompe in studio la mia infermiera (Dhebhorah, intelligenza di miss Universo in un corpo alla Rita Levi Montalcini, con l’agenzia interinale non ci siamo capiti) con un cuscino sotto il camice gridando “che colpa tiene, che colpa tiene a’ creatura!”
Se schiaccio il secondo i camerieri del bar sottostante si catapultano in studio vestiti rispettivamente da poliziotto, motociclista, indiano e cow boy ed insieme eseguiamo la coreografia di YMCA dei Village People.
Se schiaccio il terzo la poltroncina ospite davanti alla mia scrivania esplode polverizzando chi vi poggia le peccaminose terga.
Perché mi sono spinto a tanto? Devi sapere che, qualche anno fa…..
Musica da sogno, diciamo arpa, dissolvenza, immagine seppiata di ambulatorio, un me più giovane ed aitante riceve un informatore farmaceutico, decisamente anziano. Questi mi presenta le sue poco suggestive specialità, io ricambio con il mio consueto atteggiamento di non esagerato interesse al di sopra della soglia dell’educazione, lui mi guarda all’improvviso più intensamente, io penso che sia inutile tanta intensità per promozionare un fermento lattico. Poi mi dice mellifluo: “certo, caro dottore, potremmo uscire una di queste sere, e parlare di tutt’altro che di lavoro…”
Io mi blocco. Forse impercettibilmente annuisco poi mi fermo. Faccio per tendergli la mano per congedarlo. La ritraggo. Lo congedo con un lievissimo sorriso che è una smorfia ed un “arrivederci”. Lui si alza e se ne va. Io esco, pallido a dire di Dhebhorah, le racconto tutto subito, devo farlo. Ridiamo, più lei.
Ho memorizzato i suoi prodotti per non prescriverli mai più. Ho buttato i campioni e mi sono lavato le mani con il Lysoform. Non l’ho più rivisto. Forse aveva scoccato l’ultima freccia prima del pensionamento, chi lo sa. Io gay? E gerontofilo? Come gli è passato in mente?
Ma torniamo all’altro giorno.
Secondo me hai sbagliato, avresti potuto concederti...non avresti più avuto la dissenteria in vita tua.
Torniamo alla nostra maliarda:
Allora dottore, dove eravamo rimasti…
A quando prendeva il certificato e il bambino e… ma dov’è suo figlio?
L’ho lasciato due post fa così non ci disturba. (ammicca)
Ma non si sentirà solo?
Si figuri, con lo smartphone in mano ed Angry birds è a posto per un’ora. Veniamo a noi.
Mi faccia sua qui, sulla scrivania (sgombra il piano da ricettari e timbri)
Andiamo, signora… (mi accorgo che non so il suo nome), non so nemmeno il suo nome. Per me lei è “mamma di Thomas”. Non è con il disordine che mi ecciterà.
Ora che siamo intimi mi chiami pure solo “mamma di”
Stavo anche dicendo, signora mamma di, che la nostra storia è finita scritta su un blog rispettabile, la cui responsabilità è a cura una bravissima ragazza, di integerrimi principi morali.
E principi azzurri, immagino, anche. Quindi?
Quindi si attenga ai fatti reali.
(Getta all’indietro i lunghissimi capelli neri e mi fissa)
Fatti reali, principi azzurri, e nessuno che mi fa la corte. Per attenermi ai fatti prima devo farmitisi, dottore. Cosa le piace di più in me?
L’uso dei pronomi? (prendo tempo)
Lo sapevo che c’era un’altra. La tenutaria del blog! (alza la voce e la gonna. Mi è difficile resistere quando scorgo il reggicalze ufficiale dell’Inter)
Tenutaria non è proprio il termine più idoneo…
lei si sporge sulla scrivania, io mi faccio piccolo nella poltrona (non proprio in tutte le parti del corpo, ma vabbè), e d’impulso schiaccio con una manata tutti e tre i tasti d’emergenza.
Dhebhorah ragazza madre irrompe, seguita da quattro presunti gay di San Francisco, mentre un’esplosione sparge silicone su pareti, mobili, ballerini, gravida, sanitari (io, no il box doccia che avrebbe in effetti potuto beneficiarne), punti luce. Dopo pochi secondi quando le orecchie riacquistano l’udito l’unico rumore che si sente è lo sfrigolio sull’alogena.
Morale della storia?
Amati Silvia, l’amore verrà.
(Non ne sono proprio sicuro ma una morale bisogna pur trarre. E se trovi a tuo insindacabile giudizio che la leggerezza di questa storia vera sia fuori luogo in un post riflessivo come questo, allora cancellala pure. Se invece ti ha ispirato un sorriso, allora sono contento)