L'attesa



Lei era fuori dall'ospedale, l'asfalto era rovente di sole, l'aria si muoveva come fosse fumo deformando oggetti e strade.
Era asciutta, come si asciugava ogni volta che aveva paura, un dimagrimento del benessere più che della carne.
Aveva respirato a stento fino al momento in cui l'avevano legata stretta ed infilata nel tubo, lì dentro non aveva praticamente respirato.
I suoni violentissimi le avevano fatto compagnia mentre lei cercava di spingere il pensiero al di sopra del tubo, lontano da quella plastica pallida, dalla malattia, dal dolore, dalla pompetta sudata che stringeva nella mano destra.
Ne era uscita da quel tubo asfissiante, aveva camminato per risalire le scale, aveva risentito il sole e l'aria.
Aveva aspettato i risultati per un'ora, bevendo tè freddo lentamente.
Intorno a lei altre donne ed altri uomini attendevano.
Chissà a cosa pensavano, se le immagini che scorrevano dentro di loro erano le stesse sue, se si assomigliavano le paure e le domande.
Avevano ritirato le risposte quasi contemporaneamente, lei aveva aspettato ancora un po' tenendo la cartellina fra le mani.
Una donna aveva iniziato a piangere forte, l'altra sembrava quasi abituata a questo momento e passeggiava leggendo piano.
Sarebbero arrivati giorni senza sonno, ondate di paura agghiacciante, sensazioni di qualcosa di buono che invece poteva arrivare, fiducia improvvisa, forza e fragilità indicibili, sarebbero arrivati i giorni dell'offesa della carne, dello strazio dei corpi costretti nei letti da mesi, delle ore in cui qualcuno aveva fatto battere il suo cuore e respirare i suoi polmoni al suo posto, sarebbero arrivati giorni di camici allacciati dietro e flebo e drenaggi infilati nella pancia, sarebbero arrivate orrende minestrine scotte e flebo fuori vena, telefonate ai figli e baci alla loro macchinetta portafortuna, sarebbero arrivati gli urli stravolti dei malati soli nella lunga notte del reparto, la madonnina con la mano incollata in mezzo all'atrio dell'ospedale dove molti pregavano in silenzio, sarebbero arrivati i massaggi di sua madre sul viso e sulle spalle, la corsa dietro alla lettiga per soffiarle sulla testa un "è tutto finito".
Sarebbero arrivate le sorprese belle, le risate nonostante, la doccia rinfrancante, il sonno finalmente il primo sonno a casa.
Sarebbero rimaste le canzoni piantate nelle orecchie per superare la notte, il profumo della chirurga mentre spiegava i rischi dell'intervento senza minimamente capire quanta paura stesse gettando dentro ad un cuore solo.
Sarebbero rimaste pagine da scrivere ancora, con la faccia illuminata da questo schermo azzurro, come stasera.

Commenti

Emme ha detto…
UN ATTIMO PRIMA
Quando varchi quella soglia.
E il tuo io presente è incredulo.
Il tuo stato mentale è lucido e confuso allo stesso tempo. Perfettamente a fuoco al centro di quello che stai vivendo. Indistinto e sfuocato nell’immediato perimetro.
Il nuovo presente.
Il futuro è dietro un vetro smerigliato, oltre il quale temi di capire che siano solo gli altri a muoversi.
Dietro i tuoi piedi si è aperto un crepaccio incolmabile.
Tra adesso e un attimo irraggiungibile. Perché non esiste più. Un attimo prima.
Un attimo prima mamma e papà erano al tuo fianco, ora sei un bambino solo nella calca.
Un attimo prima la macchina andava, ora sei fermo a fissare il cofano alzato.
Un attimo prima avevi il portafoglio, ora qualcuno te l’ha preso.
Un attimo prima hai trovato il coraggio di dichiarare il tuo amore, ora lei ti rifiuta. Nemmeno più l’illusione.
Un attimo prima sei cittadino della tua vita, ora prendi il passaporto da malato.
Il letto non tuo. Un dolore di notte interrompe il tuo sonno già sottile. La medicazione non tiene. Ti metti a sedere. Stai per suonare il campanello. Le infermiere entrano in stanza. Telepatia? No, la luce della chiamata è già accesa. Non sono li per te.
Il tuo compagno di stanza subisce una pratica tanto compassionevole quanto umiliante, solo in parte nascosta da un separè bianco. Il suo titolo è Ingegnere quando i medici parlano a lui, carcinosi quando parlano di lui. Non più organo, non più nemmeno cancro. Più cancro che persona.
Per decenza taci. Non chiedi nulla. Aspetti. Senti la pelle bagnata. Il sangue filtra dalle bende. Ti sporgi dal letto. Goccia dopo goccia vedi formarsi una piccola pozza sul linoleum azzurro. Non dovrebbe stare lì. IO non dovrei stare qui. Già immagini il dolore della benda, parzialmente adesa, che staccheranno dalla ferita aperta. Pensi ai due significati del verbo sfasciare. Li rappresenti entrambi.
Sono qui. Un attimo fa non c’ero.
Aspetti e pensi con quali patologie faresti cambio. Un dente scheggiato. Un dito rotto. Un riccio calpestato. Uff, troppe.
Ma chi mi ha rimesso insieme? Il dott. Frankenstein? Inga? Frau Blucker? Igor?
Ho deciso.
Domani me ne vado.
E poi vedi che legnata vi do su Tripadvisor.

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