Riassunto
Silvia, trentanove anni, capelli corti da un pò, sessantaquattro chili che dovrebbero essere sessanta al massimo,una terza coppa C di seno, molta fame, una psicologa di nome Anna con gambe lunghissime.
Detesto le mie gambe, del cappuccino bevo solo la schiuma, non finisco mai una tazzina di caffè, il colore lampone è un bel colore ma non lo uso quasi mai.
Tanti libri fra le mani, la musica ovunque, grande disordine delle cose intorno e dentro me, casa mediamente pulita, desidero tanto una poltrona ed una lampada da terra che la illumini, la dieta la interrompo e riprendo continuamente.
Quarantadue/quarantaquattro la mia taglia di pantalone e gonna ma se li compro da H e M indosso una quaranta, perciò vado sempre lì, quaranta di piedi, per le calze meglio una seconda misura, ma ho sempre usato la terza, effettivamente mi stavano un pò lunghe mi stavano.
Ho la congiuntivite ed una borsa Furla che non desideravo ricevere.
Ho pochissime Amiche, molta rabbia, un polipo alla colecisti ed un calcolo al rene sinistro, mi fa male la schiena, adoro le chupa chups alla ciliegia, dovrei stare ferma invece mi muovo continuamente, la mia psicologa non è affettuosa con me, i miei figli profumano di cloro e shampoo quando escono dalla piscina.
Ogni sera che mi infilo a letto da sola, penso che sia un gran peccato, mi piace tanto fare l'amore e girovagare nei giorni feriali per la città indaffarata, tendo ad andare contromano ma non quando guido, soffro il mal di mare, il mal d'aereo, il mal di macchina, sto piuttosto bene sul treno effettivamente.
Adoro le melanzane grigliate, il pangrattato, la pasta burro e parmigiano, le zuppe.
Dice che cerco di accudire me stessa accudendo gli altri, la risultante è che nessuno mi accudisce, così imparo a farmi i fatti miei.
In Val D'Aosta ed in Sicilia ero così bella che mi emozionavo a guardarmi nello specchio, capelli di whisky, sogni fatti a brandelli come stracci in bocca ad un cane, un seno che puntava dritto.
Cerco sempre una scorciatoia, sto per compiere quarant'anni, volevo una famiglia unita, allegra, un Uomo che insegnasse ai nostri figli l'amore per una donna, semplicemente amandomi.
Devo essere più severa, più granitica, non mi piace fare sempre la stessa strada.
Vorrei ordinare le conoscenze e tornare a studiare, abbandonare definitivamente la macchina, andare a vivere in provincia, stare con i miei figli il più possibile.
Ho due rughe tristi intorno alle labbra, mi gira spesso la testa, troppo spesso.
Vedo una quantità incredibile di film, viaggerei tanto, ho bisogno di viaggiare.
Il mio computer portatile fa un rumore di sassolino che viene da dentro, non è un buon segno mi pare.
Chissà come ci è finito un sassolino dentro al mio pc, chissà chi ce lo ha messo.
La focaccia bianca con il crudo che abbiamo mangiato nella campagna bagnata di Torre Alfina era deliziosa, ma l'ho dilaniata lo stesso.
Ho un lavandino rotto da sempre, un rotolotto sulla pancia, delle ortensie secche e pile di giornali da rileggere.
Non ho ancora finito quasi nulla di ciò che ho cominciato.
Commenti
Trentanove anni, sessantatre chili ben distribuiti su centosettanta centimetri.
Quasi centosettantuno. I centimetri. Quasi sessantaquattro. I chili. Quasi quaranta. Gli anni.
Nessuna pensa di meritarseli, quarant’anni. Salvo poi rimpiangerli quando sono di più, molti di più, che allora quaranta sembrano pochi. In realtà non puoi fare nulla che non facevi a trenta. Anzi di solito puoi permetterti qualcosa di più.
Cosa desidero per i miei quarant’anni? La pace del mondo, ma è difficile da incartare. La gioia, che non si fa afferrare: è lì ai margini del tuo campo visivo, sei sicura che c’è, poi ti giri a fissarla e lei ti sta già dando l’arrivederci.
La serenità? Che palle. Mica per niente il nome da ospizio più gettonato è Anni Sereni. Per la serenità c’è sempre tempo.
Una macchina per scrivere d’epoca. Ecco cosa voglio. Ferro. Nero. Che funzioni, con il suo nastro bicolore da regolare e mettere in tensione. Scrivere ogni volta un opera unica. Niente correzione. Niente copia incolla. Al massimo carta carbone. Cose da far leggere uno alla volta. In mano mia, seduti fianco a fianco; o in mano sua, io che alterno il mio sguardo dal retro bianco del foglio, martoriato Braille, ai suoi occhi. Ti piace? Dimmi che ti piace.
Ho sonno. Terminato anche questo giorno del mio quarantesimo anno. Terminato. Non nel senso che è lui che si è lasciato passare. Nel senso che IO l’ho terminato. Come Shwarzi. Ho fatto tutto quello che dovevo fare, ho detto tutto quello che dovevo dire. Non l’ha passata liscia questo giorno. L’ho messo sotto.
Adesso sono stanca.
Una macchina per scrivere. Mitteleuropea. O Britannica. Anni trenta. Beata lei.
La sveglia suona presto. Ho la certezza che oggi suona presto solo per me. Me lo conferma il silenzio che colgo appena mi metto in piedi. C’è qualcosa di sgradevole e allo stesso tempo di eroico nell’alzarsi prima degli altri. Dormite, dormite, non sapete cosa vi perdete. Per me il giorno di festa comincia prima.
Caffè. Tanto, nero, bollente. Nausea. Piedi freddi sul pavimento freddo.
Tutto ha un senso però.
Mi ricordo che sono sola in casa. Smetto di muovermi con cautela. Sciacquo la tazza. Specchio. Apro e chiudo cassetti. Specchio. Doccia. Specchio. Pronta. Specchio.
Chiudo la porta di casa perfettamente consapevole. So dove devo andare. E perché. La tiepida sensazione di qualcosa di bello che mi aspetta.
Certi giorni sai che ti aspetta qualcosa di bello. A momenti ti ci concentri. Per il resto del tempo altre cose si sovrappongono, cose quotidiane, ma la sensazione di premio finale non scompare, rimane ai margini della percezione, poi si inabissa di nuovo. E quando riappare un po’ ogni volta ti stupisce.
Esco in strada, cammino. La mia porta di casa rimane nell’ultimo istante della prima parte della mia vita.
Poche macchine lontane. Aspetto invano che il rumore dei miei tacchi risuoni nelle mie orecchie, nella strada. Maledetto risuolatore. Tu e la tua gomma. Una donna sola. I tacchi attirano i lupi. Allora perché sono delusa?
La mia vecchia scuola. Ci hanno anche girato una fiction. La ricordavo più lontana. Voci di bambini che aspettano in fila nel cortile. Aspettano cosa? Il pullmann. Una gita. Deve essere così. Certe cose non cambiano mai. Quella bambina, poi, con quello zaino, quel sorriso… Oddiocristo!
Si precipita all’ingresso, perdendo di vista il cortile mentre aspetta per un tempo eterno che qualcuno risponda al citofono. “Desidera?” “Una macchina per scrivere d’epoca” risponde un’idiota fuori tempo massimo nella sua testa. “Mi apra, per favore!” Dà il suo cognome da signorina, è giusto, è quello che è sempre risuonato in quel luogo. Le aprono. Una voce femminile alterata è bastata a rassicurare il suo interlocutore, non è né la prima né l’ultima madre ansiosa a chiedere udienza fuori orario. Il motivo è sempre unilateralmente plausibile.
La porta si apre con uno scatto. Un attimo prima di precipitarsi all’interno, una voce alle sue spalle: “Aspetti!” Si gira. Un uomo. Sul marciapiede opposto. Mai visto prima. La sta guardando. Allarmato? Magari è solo un’impressione. Magari non sta nemmeno rivolgendosi a lei. Magari chissenefrega.
Si volta di nuovo, ed entra correndo nell’atrio della scuola. “Aspetti!” Grida ancora l’uomo. E poi quella seconda parola, che le sembra cerchi di afferrarle i lunghi capelli sciolti mentre inizia a correre verso l’interno.
Il portone si richiude alle sue spalle.
Si ritrova in una grande stanza. Nessuna guardiola. Tante bacheche, cariche di avvisi, alle pareti. Alcune porte chiudono quelli che un tempo erano gli ingressi dei corridoi o delle scale. Porte tagliafuoco. Tutto cambiato. Maledetta sicurezza ambientale. Più maledetta del risuolatore.
Apre una di queste porte. Percorre il corridoio che, le sembra di ricordare, porta in cortile. Non ricordava fosse lungo dieci chilometri. Prima dell’ennesima porta metallica una donna in camice grigio le sbarra suo malgrado la strada.
Ancora quella domanda: “Desidera?”
“Tacchi che risuonino, e la morte lenta di chi ha inventato le porte tagliafuoco”. La donna non aspetta che l’idiota fuori sincrono la smetta di vaneggiare, e frappone tra lei ed il cortile una seconda domanda: “E’ per sua figlia? Ha dimenticato qualcosa? Mi spiace, sono appena partiti.”
Mia figlia?
Escono insieme in cortile, dove non c’è più nessuna scolaresca da proteggere dall’incursione nella scuola di un’invasata. Il cancello elettrico compie la sua ultima frazione di arco prima di chiudersi. Diamine, ai suoi tempi ci voleva un’eternità per domare una mandria di bambini e farli salire sul pullman in ordine alfabetico. Efficienti le nuove leve dell’insegnamento! Capisce che, anche fissandolo, il cancello non si riaprirà, ed il pullman non rientrerà in retromarcia, e rivolge lo sguardo verso la… bidella? Giammai. Guai a chiamarla così, guai al solo pensarlo. Come minimo avrà una laurea triennale, avrà superato esami tipo: “ Termoacustica dei gessetti” o “Traiettoria della segatura sul vomito”, e si chiamerà qualcosa tipo “operatore scolastico non docente di non alto livello”.
“Mia figlia?” Le chiede.
“Si, beh, pensavo, insomma… la somiglianza con… come si chiama…?”
Ed ecco che quella parola finale gridata dall’uomo, che era sembrata, nella concitazione del volere entrare nella scuola, solo sfiorarle la nuca, ora la punge come un dardo infilzato tra le scapole. Come quelle forti donne del West, che prima mettono in salvo i figli e solo dopo si accorgono della freccia Chejenne che hanno nel fianco.
Quella parola.
Silvia.
Come poteva quell’uomo sconosciuto averla chiamata per nome?
3. CIOCCOLATA
L’inserviente muove le labbra ma Silvia non la sta più ascoltando. La somiglianza con chi? Una follia. Mi ricorderei di avere una figlia. Ho avuto una visione, ma non è a questa donna che devo spiegazioni. Frasi di rito con il pilota automatico per guadagnare l’uscita. Cosa pensavo di avere visto?
In strada l’uomo non c’è più. Scomparso. Un’altra allucinazione? Visiva ed anche uditiva?
Riprende a camminare. E’ in ritardo, lo sa.
Più gente sui marciapiedi. Su quello opposto due donne anziane camminano parlando fitto. Una delle due ha qualcosa di familiare, di materno, nel modo in cui cammina, in cui muove gli occhi parlando. Sto impazzendo, pensa. Non è possibile. La visione è interrotta dal passaggio veloce delle auto tra di loro. La sua visione della donna è quindi spezzettata come un film muto, la donna sembra muoversi a scatti. Quando Silvia decide di attraversare la strada, un grosso camion si interpone tra lei e le due donne. Quando il camion sfila, delle donne nessuna traccia. Evidentemente sono entrate in un negozio. Ma quale?
Il viso della bambina a scuola ed il viso dell’anziana a passeggio le si sovrappongono nella mente. Viene colta da un senso di vertigine, di incredulità.
“Sta bene? Posso esserle d’aiuto?” Una voce la riscuote, i suoi occhi rimettono a fuoco la strada, i passanti, l’uomo che l’aveva chiamata per nome davanti alla scuola e che ora la guarda. Sembra sinceramente preoccupato.
“Ci conosciamo?” riesce a dire.
“Io conosco lei. Ma diciamo che mi presento oggi”
“Piacere, allora. Silvia. Ma già lo sa, a quanto pare”
“Posso offrirle qualcosa? Cappuccino, cioccolata?”
“Non accetto caramelle dagli sconosciuti. Ma una cioccolata, con panna si intende, non era prevista dalle raccomandazioni di mamma.”
“Benissimo. Ne fanno una ottima a pochi passi. Venga.”
“La avverto che ho poco tempo. E devo dirle che accetto per curiosità, e perché mi prende in un momento di confusione. Lei non è il mio tipo, ammesso che io abbia un tipo. Quindi niente dialogo fitto in cui lei mi racconta tutto di lei e vuole avidamente sapere tutto di me in venti minuti, ed alla fine mi chiede se non sono mai stata innamorata. Chiaro?”
“Chiarissimo. Ci mancherebbe.”
Entrano in un bar poco distante. La cameriera li squadra cercando di capire tutto della loro relazione. Classifica le coppie di clienti entomologicamente. Coppia di colleghi. Mesi a tubare in ufficio. Primo appuntamento nel Grande Esterno. Lei ordina la cioccolata promessa, lui un caffè americano.
“La ringrazio, signor…?”
“Mi può chiamare Emme.”
“Partiamo col piede sbagliato.”
“Cosa intende, Silvia?”
“Emme. Non è un nome, è un nickname. Giochiamo a carte scoperte, è più corretto dato che lei conosce il mio vero nome.”
“Emme è il mio nome. Non ne ho altri, mi deve credere.”
“Spero che arrivi presto la cioccolata e che non scotti troppo, perché sto innervosendomi. Già è una giornata che definire strana è poco.”
“Per via degli incontri?”
“Si, esatto. Ho visto… ho creduto di vedere… ma è impossibile.”
“Diciamo improbabile. Ma non in questo luogo, in questo tempo.”
“Come sa ciò che ho visto? Lei non immagina neppure…”
“Sono incontri destinati a ripetersi in questa, diciamo, circostanza. Il problema è che non sappiamo quando questa situazione verrà normalizzata. E’ per questo che non cercherò di convincerla di non avere visto chi lei, a ragione, crede di avere visto. Io conosco il suo nome, è vero, ed entrambi conosciamo il nome della bambina e della signora che hanno ovviamente ed inevitabilmente attirato la sua attenzione.”
“Se intende che il mio cuore per due volte si è fermato, allora si, le ho notate.”
“E sappiamo entrambi che questo nome è… Silvia. Per tutte e due. Per tutte voi tre, per l’esattezza.”
La conversazione viene interrotta dalla cameriera, che posa le tazze sul tavolo e decide, dall’espressione turbata di lei ed impassibile di lui, che l’incontro non proseguirà nella camera di un motel. Ritiene la coppia non più meritevole di ulteriori furtive occhiate, e li lascia alle loro spiegazioni reciproche.
“Non so se preferisco essere pazza o se ammettere che è tutto vero. Ma suppongo lei abbia una spiegazione plausibile per tutto.”
“Si, in effetti. Non è la prima volta che affronto anomalie del genere, e non le nascondo che con il tempo mi sono costruito un discorso collaudato, standard, per spiegare la situazione a chi è direttamente coinvolto. Ovviamente apporto piccole varianti dato che ognuno reagisce in modo differente compatibilmente con la propria indole: ma in questo caso specifico, insomma, nel suo caso, Silvia, per me è diverso.”
“Perché è diverso?” La cioccolata è appena colata da un vulcano. Può permettersi di interromperlo.
“Perché noi qui ci conosciamo. Io leggo di lei, lei legge di me, io scrivo di lei.”
“Qui dove? A Roma? Nel bar?”
“Su queste pagine. Sul web, sul blog, se preferisce. Qui scrive Emme. E quando scrive di lei può permettersi qualche libertà.”
“Se vuole usarmi violenza la avverto che ho una cugina killer della mafia”
“Libertà innocenti. O almeno me lo auguro.”
La guarda ai lati del collo. Lei istintivamente si porta le mani dove il suo sguardo si è posato, e trasale.
“I capelli… i miei capelli!”
“Li sta tenendo corti da un po’, lo so, l’ho letto, per l’appunto. Ma io su queste pagine l’ho descritta con i lunghi capelli sciolti. La sto descrivendo bella a modo mio.”
“E io divento quello che lei desidera? Mi sento abusata, non rispettata!”
“Sono animato dalle migliori intenzioni, mi creda. Potrei scrivere ciò che voglio, ma non farò nulla che possa metterla in imbarazzo.”
“Non le credo. Forse è solo che nell’ultimo periodo ho trascurato il parrucchiere, e lei mi sta suggestionando”.
Emme non parla. Sorride impercettibilmente. La cameriera si avvicina di nuovo al loro tavolo, si alza la gonna fino al mento e sussurra ad Emme “serviti il pasto, cowboy”. Poi riabbassa la gonna e torna dietro il bancone riprendendo ad asciugare bicchieri come se niente fosse. Silvia richiude la bocca rimasta semiaperta durante tutta la scena.
“Adesso le credo. Quello che è successo può esistere solo nella sua fantasia post adolescenziale malata. Con tutto il rispetto, ma lei non è il tipo di uomo che fa perdere il lume della ragione ad una donna a prima vista.”
“Lo so. Volevo appunto dimostrarle quanto dicevo. E comunque è una citazione, non il frutto della mia fantasia eccetera eccetera.”
“Torniamo a chi ho incontrato oggi, se non le dispiace. Ho fretta.”
“Quella che lei sta vivendo è una sovrapposizione temporale. Una cosiddetta intussuscezione.”
“Intussu…?”
“E’ solo un termine tecnico. Il tempo si è corrugato, e lei è venuta a contatto con se stessa trent’anni fa”
“La bambina! Ero io alle elementari! Ne ero certa!”
“…e con se stessa tra trent’anni”
“La signora a passeggio! Dio mio…”
“Esatto. La vita delle persone ha un inizio ed una fine. Immagini la vita di una persona come una salsiccia: il ripieno è il contenuto, il significato di una vita. Il budello che la contiene è l’intervallo di tempo. L’inizio e la fine, da nodo a nodo, con la parte iniziale e quella finale più vuoti. Mi segue?”
“Al manicomio? Certo, vada pure avanti lei.”
Supponga ora che questa salsissia sia compressa alle estremità. Immagini, con rispetto parlando, di prendere una salsiccia tra le mani e comprimerla come per accorciare un telescopio. Cosa succederebbe?”
“Che si piega e non si spezza?”
“Non esattamente. Se la pressione è graduale e secondo l’asse maggiore della salsiccia, nella parte centrale la pelle che la riveste si corruga in pieghe, e parti dapprima lontane linearmente si sovrappongono. E’ esattamente quello che è successo a questo punto della sua vita. Il 1984, il 2014 ed il 2044 sono venuti a contatto, così come le Silvia di questi anni. Spero di essere stato chiaro.”
“Ho capito la teoria, ma, scusi, chi sta schiacciando la mia salsiccia, la mia vita?”
“Lei stessa. Qualcosa la frena. Almeno in un punto nel passato, almeno in un punto nel futuro.”
“Lei si rivolge ad una donna dicendo “con rispetto parlando” se la immagina con una salsiccia in mano. Lei è eccessivamente cortese o eccessivamente inibito.”
“Entrambe le cose, forse. Ogni tanto mi lascio andare. Con la cameriera per esempio è stato facile. Lei per me non…”
“Non solo. Lei ha usato il termine intussuscezione. Ho controllato su Wikipedia. E un sinonimo. Di invaginazione. Sarebbe stata una parola più semplice per me da capire.”
“Si, forse…”
“Ma non ce l’ha fatta, vero? A pronunciare quella parola che contiene quel’altra parola…sconveniente.”
“A tavola si, se non altro. Ma ha ragione. Chi non ha problemi?”
“Dio, ma quanti anni ha lei? Cento?”
“Magari.”
“Come?”
“Scherzavo. Tanti, comunque. Tornando a lei, in questi casi preferiamo, data la transitorietà del paradosso temporale, trasportare il soggetto, insomma, lei Silvia, in un luogo protetto. Qui.”
“Qui?”
“Sul blog. Nel tempo che occorre per ripianare letteralmente la cosa.”
“Come si ripiana? E soprattutto chi la ripiana? Stirando la salsiccia, con rispetto parlando? Scusi, rido per non piangere!”
“Come si tolgono le pieghe da un copriletto: innanzitutto togliendo il gatto che vi ci si infila sempre sotto, e poi rimboccando bene i lembi.”
“Non le va mai di traverso una metafora? OK tolgo di mezzo i miei casini miagolanti, cosa ci vuole, ed assicuro i punti fermi, averceli. Tutto qui? Semplice e geniale!”
“Non deve fare tutto oggi. E comunque io sono solo una voce nella sua testa quando mi, legge, non posso aiutarla di più. La cioccolata e la spiegazione (per rimanere in campo pieghe) sono tutto quello che posso darle.”
“La vita è come una salsiccia. Perché non fonda una scuola filosofica? Chessò, l’Accademia degli Insaccati. Ma scusi, allora tutte le vite sono uguali, inizio fine pelle ripieno?”
“Le dirò di più. Tutte le vite sono equivalenti. Tutte ugualmente piene di significato. Indipendentemente dalla lunghezza e dalla quantità di cose che contengono.”
“Anche le vite durate pochi anni, pochi giorni?”
“Esistono dei correttivi, delle seconde possibilità, e comunque in ogni pacco di spaghetti ce n’è sempre qualcuno più corto.”
“Salsicce, spaghetti. Lei deve avere un problema con il cibo. Oltre che con l’intussuscezione. Lei è mai stato innamorato?”
“Si. Anche qui.”
“E…?”
“Io ero in bici, il suo uomo in macchina. Me l’ha portata via.”
“E lei cosa ha fatto?”
“Quello che faccio sempre. Scompaio.”
“E adesso cosa farà?”
“Mi permette di accompagnarla a casa?”
“Non se ne parla. Ho fretta.”
“Non è la prima volta che lo dice. Fretta di fare cosa?”
“Io… non lo so. Oggi mi sono svegliata presto, sono uscita a piedi, dovevo…devo… non lo so più.”
“Lei doveva entrare in queste pagine. Doveva evitare di incontrare più e più volte la Silvia che è stata e che sarà. Sarebbe stata una situazione deleteria per tutte e tre. All’inizio ho cercato di avvisarla, ma lei è stata più veloce. Almeno è stata in grado di capire il motivo per cui volevo metterla in guardia.”
“Forse è meglio se torno a casa da sola, se non le dispiace. Ho bisogno di camminare.”
“Come desidera.”
“Ci rivedremo? O devo solo associarla alle allucinazioni di oggi?”
“Non la ho convinta molto, pare.”
“Si stupisce? La sua storia è assurda, Emme o come diavolo si chiama.”
“L’importante è che mentre parlavamo tutto abbia iniziato a sistemarsi. E’ stato un piacere, Silvia.” Le guarda il collo.
Lei si tocca i capelli. Corti.
“Devo camminare”
Grazie
La guarda alzarsi, salutarlo con una stretta di mano ed uscire senza voltarsi. Il tempo è volato. Emme avrebbe voluto che la cioccolata rimanesse indefinitamente rovente, così che Silvia restasse seduta a quel tavolino con lui per sempre. Potrebbe scriverlo. Ma non sarebbe corretto. Non sarebbe vero, fuori di qui. Guarda la cameriera. Lei si avvicina. Il conto prego. Lascia il minimo di mancia. Biancheria dozzinale, dopotutto.
Esce.
Cammina fino a dove ha lasciato la bici.
Il bello di esistere in un blog è che non devi legarla, la bici. Puoi essere un culturista di colore di ventitre anni, una Donna Moderna, un redattore di DSM, puoi essere qualcosa per qualcuno.
Prende la bici. Si avvia lentamente. Torna a essere solo una voce nella testa di chi legge.
8. RISVEGLIO
La sveglia suona. Solito orario. Solito suono.
Alla faccia del sonno ristoratore, non ha affatto cucinato una notte di riposo. Che sogno assurdo. Si sente più stanca di ieri sera. Come se avesse camminato tutta la notte. Allo specchio, due piccoli sbaffi marroni alla commessura delle labbra. Bah.
L’unico paradosso temporale che è disposta a prendere in considerazione è quando piove sempre sul picnic.
Ha qualche minuto.
Accende il Pc.
Controlla il blog.
Un nuovo post in risposta al riassunto dei suoi primi trentanove anni.
Legge.
Sa già con quale voce le giungono le parole nella mente.
1. TRENTANOVE – SONNO – PASSI
Trentanove anni, sessantatre chili ben distribuiti su centosettanta centimetri.
Quasi centosettantuno. I centimetri. Quasi sessantaquattro. I chili. Quasi quaranta. Gli anni.
Nessuna pensa di meritarseli, quarant’anni.
Eccola, proprio come ricordava. Si era segnata la data. Trent’anni prima. Poi non ci aveva pensato, se non saltuariamente, per quasi trent’anni. Ed ogni volta era man mano sempre più sicura di essersi immaginato tutto. Silvia piccola, Silvia del futuro. Il povero Emme. Quella cioccolata finita troppo presto. Tutto svaniva come in una vecchia favola ascoltata nel dormiveglia.
Ma adesso era lì. Dall’altra parte della strada. Aveva guardato quella Silvia quasi quarantenne. Nel pieno degli anni. Poi quella giovane Silvia l’aveva vista a sua volta, e lei aveva distolto lo sguardo. Il provvidenziale autoarticolato che spezza l’espressione stupita su quel viso ancora fresco. E lei, la Silvia del 2044, che si rifugia, correndo in quel suo modo ora un po’ goffo, e sorridendo, in quell’agenzia di viaggi. Alfa Centauri è splendida in questa stagione, mia cara signora, un toccasana per le ossa, sono le parole con cui l’accoglie l’automa imbonitore.
Ci penso su, dice lei.
Ci penso su.
Ma intanto mi teletrasporto a casa.
Era tanto che mi aspettavo.
da Emme per Silvia